Carol Rama. Le lacerazioni del mondo.

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  • 14 settembre - 13 ottobre 2017

Le particolari e intense opere di Carol Rama (Torino 1918 – 2015) hanno caratteristiche estetiche ed un gusto molto più vicino all’espressionismo austriaco e tedesco che non alla nostra tradizione mediterranea e solare. Duramente provata dalla tragica e prematura morte di suo padre (probabilmente suicidatosi) e dai forti problemi psichici di sua madre, la Rama ha sempre svolto il suo mestiere di artista come un’intensa autoterapia. “Il lavoro, la pittura, per me, è sempre stata una cosa che mi permetteva poi di sentirmi meno infelice, meno povera, meno bruttina, e anche meno ignorante… Dipingo per guarirmi. Quando dipingo non ho nessun garbo professionale, nessuna gentilezza, non ho regole. Non ho mai seguito corsi regolari di pittura, né avuto un’educazione artistica, accademica. La mia insicurezza tecnica, il mio non avere un metodo, è diventato un aspetto del mio lavoro. E questo mi ha aiutato moltissimo, perché, al di là della tecnica, l’idea è sempre molto chiara.” Se questo mondo fosse perfetto e felice, l’arte probabilmente non esisterebbe. In molti casi, in molti artisti, il gesto artistico è stato soprattutto il tentativo di indagare e trasfigurare un disagio, un dramma, una disperazione. Nella Rama una forte sessualità vissuta insieme come gioco e colpa, felicità e paura, segno e cicatrice. Una carnalità fatta di corpi, volti, mani, presenze, insieme reali e impossibili, concrete e quasi surreali. Corpi o segmenti di corpi privati di ogni armonia; corpi e genitali e membra indagati come presenze ovvie ed oscene, vitali ed inquietanti.  Curiosi, enigmatici occhietti avvolti tra vapori informali ci spiano come sentinelle di una coscienza acuta e moltiplicata. Piccole e misteriose scritte e segni indagano una razionalità che sfuma tra i grandi enigmi dell’esistenza. Figure femminili, autoritratti, intaccati da presenze ambigue, misteriose, tra l’organico ed il vegetale.

Come la sua bizzarra, lunghissima treccia di capelli legata alla sua fronte, un fiume di forme segue il vasto e strano ciclo delle metamorfosi, degli istinti, delle pulsazioni più profonde. Altri occhi, questa volta disegnati, dialogano con rosse lingue ironiche e beffarde, su fogli di altri disegni, altre tracce, altre stampe. L’armonia del corpo, nella Rama, è sempre intaccata e distrutta da una sessualità preponderante, violenta, ironica, malata. Un normale piede si confonde con una legnosa protesi; un ramo di foglie si trasforma in corona di spine. Poi, in altri periodi, in altre opere, un netto allontanamento dalla figura umana, a favore di un gioco eminentemente formale ed estetico: il gioco delle camere d’aria; il nero della gomma, variamente declinato come tubo appeso, presenza, icona, elegante superficie nera. O, in altre opere di gusto informale, ancora una pausa dal vasto fuoco organico ed erotico, a favore di una ricerca estetica più pacifica, pacata, armonica. Tra questi due principali temi, il percorso della Rama ha esplorato due mondi apparentemente opposti: l’universo espressionista, organico, riccamente corporeo in parte derivato da Egon Schiele; e quello formale, estetizzante e più lirico, in parte ispirato ad Alberto Burri. Da una parte il mondo della corporeità, della sessualità, fatto di lacerazioni, frammenti, tragiche divisioni e visioni. Dall’altra un universo ordinato, astratto, unito, dove l’armonia della forma ricompone ogni lacerazione. Così tutta la sua opera, come un inquieto pendolo descritto da Edgar Allan Poe, oscilla incessantemente tra i due inconciliabili poli della nostra esistenza: la lacerazione e l’unità, il caos e l’armonia, il frammento e la totalità, il fuoco e il cristallo.

 

Paolo Repetto

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