“Tri Tri Tri / fru fru fru / uhi uhi uhi / ihu ihu ihu.” Scriveva così, agli albori del ventesimo secolo, Aldo Palazzeschi. Non era follia, forse non era neanche futurismo. Era un grido, il piacere di lasciarsi andare a un fou rire durante un funerale. “Il poeta si diverte, / pazzamente, / smisuratamente.” Parole, urli, accozzaglie di suoni. Che cosa sono? Forse “la… spazzatura / delle altre poesie”. Ma la chiave sta nell’ultimo verso: “e lasciatemi divertire!”. Questo è il segreto: provare a costruire qualcosa di spassoso e chiamarla “poesia”. Il gioco. Un artista può giocare? Palazzeschi risponde: “Ahahahahahahah!”. E Silvano Repetto, che cosa risponde? Niente. Se ne guarda bene. Come fa un clown a spiegare un naso rosso? Sempre Palazzeschi si definiva “il saltimbanco dell’anima mia”. E quanti artisti all’inizio del secolo hanno parlato di sé mediante figure che appartengono al mondo del circo. Per limitarci ai grandi, mi vengono in mente Picasso, Paul Klee, Kandinskij. Questo significa che Repetto è tornato all’inizio del Novecento? No, ma forse vuol dire che ha imparato la lezione di questi artisti-clown, capaci al momento buono di entrare in scena con una capriola. Spesso, nei commenti alle performance, si legge: “Repetto accenna un sorriso”. Ecco la capriola. Ecco il punto nel quale il prestigiatore capovolge la realtà e, sfoderando la sua illusione, ci regala un po’ d’infanzia. Serve chiederci a che cosa serve qualcosa d’inutile? Forse sì, se il gioco ci restituisce questo atto fondante dell’essere umano: lo stupore. Ma facciamo un esempio. “Performance inutile n. 903. Novembre 2000. Osservare l’arte contemporanea e cercare di capirne il significato.” Qui Repetto addirittura ci offre uno specchio che riflette un altro specchio. L’artista usa l’arte contemporanea per denotare l’inutilità dell’arte contemporanea, chiamando “arte” il fenomeno ottico da lui stesso creato. Ancora una volta, Repetto gioca con noi. “Attraverso specchi – scrive Umberto Eco – si moltiplicano e alterano immagini virtuali di oggetti, in qualche modo messi in scena, che l’osservatore riconosce come riflessi da specchi”. Una “pura illusione percettiva” teatrale. E allora dove sta il dato reale? Ecco, appunto, forse si nasconde proprio nello stupore. Un sentimento infantile, con quella capacità che hanno i bambini di porsi in maniera limpida davanti alla realtà, senza barriere intellettuali e senza preconcetti. Sembra facile, ma non lo è. Bisogna che Repetto, nel momento in cui pianta un arbre magique sul Brè, si attenda di vederlo crescere. E soprattutto, bisogna che davvero l’artista torni dopo un mese a controllare se sia cresciuto. Perché questa è l’opera d’arte: non l’idea di piantare il finto abete, ma il fatto di controllarne lo sviluppo. La poesia sta proprio in questa fiducia accordata alla fantasia, in questo rendersi conto che la realtà supera il nostro sguardo, che l’essere – in quanto tale – è un mistero. E soltanto Repetto, per parlarci del mistero dell’essere, poteva scegliere di usare un arbre magique…
Appunti repettiani, di Andrea Fazioli