A partire dagli ultimi anni del 1800, Edward Curtis (Wisconsin 1868-Los Angeles 1952) ha percorso pianure, valli, boschi, montagne, fissando su primordiali lastre le umili e monumentali figure di una civiltà, una razza, che la folle brama espansionistica e l’inestinguibile sete di potere e di ricchezza dell’uomo bianco occidentale stava sterminando: gli Indiani del Nord America.
Monumenti in volti rugosi – come spesse cortecce; occhi pietrificati che ascoltano il bagliore delle stelle; braccia e mani tese che accolgono il muto canto della luna; piedi nudi che, come lievi e attente percussioni, suonano il tamburo della terra. Volti di madri, di spose, di giovani fanciulle che custodiscono e modellano il pane della vita. Il profilo della capanna, una semplice forma rotonda e triangolare, che ripara dal caldo e dal freddo. La natura morta degli oggetti domestici: i tappeti, il cestino, il piatto, il vaso, la brocca. Le fiamme e l’alto fumo di un fuoco. Le veloci o lente movenze del cavallo, strumento e compagno di un nomadismo sereno e necessario. Lo specchio dell’acqua, la sacra fonte del fiume che concede ogni giorno il miracolo della vita. Il vasto teatro del canyon, dove un occhio attento può ascoltare le variegate maschere della Natura amica. Infine, l’immancabile, celebre figura della penna: insieme realtà e simbolo dell’aquila, del falco, del volo, della sovrana presenza del Grande Spirito.
(Testo di Paolo Repetto)