I volti, le persone, i ritratti che Shirin Neshat (Qazvin, Iran, 1957) definisce con i suoi scatti fotografici sono le donne e gli uomini di una civiltà islamica provata, umiliata, ferita. Sono i volti di una sofferenza ricolma di dignità e grazia ed eleganza, alla continua ricerca di un riscatto ed una trasfigurazione. Da molti anni in esilio dalla sua patria, l’Iran – dove un regime totalitario si è macchiato di molti crimini – la Neshat è una piccola-grande donna che raccoglie in sè l’enorme forza di una religiosa, la determinazione di un politico, il fascino di una sfinge, la concentrazione di un’artista.
Per una donna in esilio, esclusa dalla sua patria e dalle sue radici, l’arte non può essere solo gioco, canto, astrazione; per una persona che conosce gli orrori del male, il sangue della soppressione, gli enigmi dell’ingiustizia, l’arte deve essere anche testimonianza, difesa, denuncia. Nella serie fotografica Women of Allah (1993-97) la donna islamica, la donna che crede nel Corano – il libro di Allah dettato a Maometto – è indagata nei minimi dettagli. Un elegante volto femminile è racchiuso dal perimetro del chador: un rigoroso e ampio velo nero o bianco: un liturgico triangolo di sinuosi panneggi che a volte ci ricorda i dipinti medievali delle nostre Madonne. Il velo che separa il privato dal pubblico: l’interno dall’esterno, l’invisibile dal visibile. Volti consacrati alla rivoluzione, alla guerra (Iran-Iraq), al martirio. La luce dei loro occhi contiene sottomissione, grazia, sofferenza, destino. Compare un fucile, o la canna di un’arma da fuoco; affiora uno strumento di battaglia, di difesa o aggressione – e di morte. La bellezza e la luce di quel volto è intaccata, lacerata, ferita da quella canna di fucile o di pistola che dichiara l’antichissimo, indissolubile nodo dell’amore con la morte: Eros e Thanatos. Poi, sulla giada della pelle del volto o delle mani, o di altre parti del corpo, compaiono scritte nell’elegante calligrafia persiana: poesie, racconti, dichiarazioni di coscienze femminili provate e combattute. A volte lo sguardo è rivolto al cielo, e le mani si raccolgono nei gesti di una preghiera. Altre volte, le mani coprono il volto stesso: in una posa di netta disperazione. Compare un fiore colorato: la canna dell’arma da fuoco ed il simbolo dell’amore si confrontano in un dialogo necessario e impossibile. Il bianco ed il nero, la debolezza e la forza, la libertà ed il martirio, la pace e la violenza, si confrontano in una danza statica e vertiginosa. Un austero, rigidissimo nero, dialoga con la grazia delle mani, che non raccolgono frutti ma proiettili. Oppure si contrappone alla candida sensualità di un nudo corpo di bambino. Le piante dei piedi di un cadavere sono decorati da un testo: la raffinatissima calligrafia Farsi, lirica e musicale, cerca un dialogo con la follia del male.
Dal 25 settembre al 6 novembre 2015 saranno esposte circa 20 fotografie, alcune derivate dai suoi video.