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A partire dagli anni quaranta del Novecento, in Europa, sotto una vastissima etichetta storiografica, la cosiddetta “Stagione Informale”, cominciarono a lavorare tantissimi artisti: da Fautrier ad Hartung, da Masson a Dubuffet, da Burri a Wols, da Mathieu a de Stael. Molti di loro, ormai da tempo, sono entrati nel prestigioso Pantheon della storia dell’arte; molti altri sono stati quasi completamente dimenticati, e restano conosciuti soltanto da una raffinata élite di appassionati e conoscitori. Tra questi spicca il nome di Alfredo Chighine (Milano, 1914 – Pisa, 1974).
Al di là di tutte le ideologie, oltre qualsiasi schema concettuale, l’arte di Alfredo Chighine è composizione e paesaggio, armonia e creta, visione e trasfigurazione. Da una parte, la sua pittura, mai vuole trascendere completamente il dato della realtà: un paesaggio, una pianura, una montagna, un campo; una figura, un cielo, un fiume, una barca, il mare. Dall’altra, questa base concreta, questo dato naturalistico, è sempre alterato. Gli oli di Chighine hanno campiture distese, morbide, visionarie; i suoi dipinti si ordinano in ricchi intarsi di moduli cristallizzati. Fino agli ultimi anni cinquanta, Chighine è un pittore quasi sempre tonale: con il volo della sua mente, sorvolando ampi paesaggi, un unico colore dominante: ora il grigio, ora il blu, ora il verde, ora il marrone, stringe e compatta come una morsa le ritmiche campiture di colore, a volte striate da acute e vibranti strutture segniche. A partire dagli ultimi anni cinquanta, la sua tavolozza si fa più vigorosa, ardita e cromatica. In alcuni bellissimi dipinti del 1960 (presenti in mostra): Composizione di barche, Blu e nero, Piccola composizione, tocchiamo i vertici della sua pittura. La spatolata si fa più energica, densa, sicura; il gesto ampio, vigoroso, solare; il ritmo degli incastri diviene robusto, glorioso, solenne; come una progressione musicale, il tono d’insieme esplode in una cromatica e armonica composizione.